In occasione della prima mostra personale di pitture astratte di Monnet (Libreria Salto, Milano, 1948) il critico d’arte Gillo Dorfles scriveva: “La pittura concreta “costruttivista” – legata com’è ad un rigoroso schema algebrico precostituito – difficilmente riesce a soddisfare il nostro gusto pittorico appunto per la sua rigidità, il suo dogmatismo, il suo rifiuto d’ogni casualità. Viceversa la pittura che rimane libera dalla costrizione di formule preconcette, vuoi nel senso tradizionalista, vuoi in quello costruttivista, è la più aperta a possibilità evolutive. A tale indirizzo s’orienta l’opera di Gianni Monnet che – dopo una prima fase di esperienze ancor memori del linguaggio cubista – ha ora affrontato le ardue vie della pittura concreta, rivelando in queste sue opere una natura sensibile al mobile gioco del colore, e feconda nel dar vita al vario succedersi di forme e di ritmi che, quasi sempre, si valgono per costruirsi della giustapposizione – spesso preziosa – di toni insoliti, uniti in un accordo di notevole efficacia”.
“La varietà e la molteplicità di questi modi nei quali si ordisce e si plasma la creazione pittorica entro i limiti di un’arte non-oggettiva è una riprova della sua validità.
La personalità dell’artista infatti si rivela ancor più netta nell’estrinsecazione di forme disancorate dall’oggetto naturalistico e che possono perciò variare senza limiti negli accostamenti, nei ritmi, nelle composizioni. E ciò è vero soprattutto per quel settore dell’arte concreta che – abbandonando le formule geometrico-matematiche – segue piuttosto i dettami d’una fantasia puramente cromatica”.
(testo originale apparso in Serigrafia n.6 – settembre 57)